Francesco Lambiasi
DIRITTO DI MORIRE O DI CERCARE IL SENSO DEL VIVERE?
Riflessioni sui fondamenti di una questione delicata
Non so come ti abbia lasciato il dibattito dei giorni scorsi,
sulla dolorosa vicenda di Eluana Englaro:
forse perplesso e ancora più incerto,
o forse confermato nelle tue scelte in un senso o nell’altro.
Ma se ti è rimasto un bisogno ulteriore di riflettere ancora
e di approfondire la questione,
questa lettera – indirizzata in particolare a giovani-adulti -
vorrebbe offrirti alcuni spunti.
Questo almeno è il mio desiderio e il mio augurio.
Cari Amici,
la storia della povera Eluana Englaro ci ha coinvolto e sconvolto tutti. Ora, mentre l’attenzione generale sembra volgersi altrove, provo forte il desiderio di raggiungervi con una serie di riflessioni che sento particolarmente vive dentro di me e che intercettano – ne sono sicuro - una grande sensibilità in ciascuno di voi. Vorrebbero essere parole pensate e pacate che alimentano la comunicazione già avviata tra noi, in diverse occasioni, e su cui vi invito a riflettere e a dialogare.
In questi casi – lo sappiamo - passate le reazioni più emotive, è facile restare disorientati, in bilico fra argomenti di cui non riusciamo a cogliere fino in fondo le ragioni. È frequente anche il rischio di finire intrappolati nella ragnatela mediatica, così affamata di scoop e di conflitti esasperati. Capita inoltre, e non meno raramente, di sperimentare sulla nostra pelle il contrasto fra l’essere fatti per la vita e la drammatica vicinanza della morte: un lutto inaspettato, la malattia di chi ci è caro, il tragico irrompere di uno dei mille volti del dolore nelle nostre giornate…
Nessun uomo è un’isola
La vita non è un rebus indecifrabile, ma un mistero grande e insondabile che ci unisce e ci oltrepassa, ci stupisce e ci affascina. E’ vero: non si può trovare niente di più personale della vita. Ma non è proprio la vita ciò che accomuna tutti noi umani, indistintamente: orientali e occidentali, credenti e non credenti, sani e malati? La questione-vita non è affare privato. Per questo i grandi temi del nascere e del morire, oltre a muovere le coscienze, ci interpellano anche come comunità civile. Salvaguardare e promuovere la vita dei cittadini non è forse “il” compito irrinunciabile delle strutture culturali, politiche, economiche e giuridiche di un paese?
“Nessun uomo è un’isola”: l’abbiamo sentito dire tante volte, ma rischiamo anche di dimenticarlo facilmente. Venire al mondo non è essere catapultati in uno sterminato arcipelago di isolotti, ma entrare in una “rete” di esseri irriducibilmente originali, eppure tutti ugualmente umani, in cui l’altro non solo ha diritto di esistere, ma è necessario che esista perché possa esistere io, in relazione con lui. Io ho un volto che è ri-vòltoall’altro. Come posso dire “io” senza ri-volgermi e aprirmi a quel “tu”? Se non riconoscessi l’oggettiva indispensabilità di questa relazione vitale, finirei per segarmi il ramo su cui sono seduto. Nessun individuo è un pacco ermeticamente sigillato, spedito dalla sala parto all’obitorio. Nessuno è rinchiuso nella prigione del suo corpo, murato vivo dentro l’involucro della propria pelle. La definizione che più mi piace dell’uomo è: una identità aperta. Vuol dire che se io mi chiudo, mi perdo; se stacco i contatti, mi spengo e piombo nel black-out totale.
È davvero così: siamo tutti misteriosamente ma tenacemente legati gli uni agli altri, tanto che le ferite che graffiano la nostra pelle, lacerano anche il corpo sociale in cui siamo innestati. È difficile trovare azioni umane che non abbiano un significato e una sia pur minima conseguenza attorno a noi, se non altro in chi ci è più vicino e ci vuole bene. È un mito da sfatare – e un’illusoria prospettiva – quella di chi immagina di chiamarsi fuori dalla rete di relazioni e di legami in cui ci troviamo. Tra l’altro, a ben pensarci, legami di gratuità e relazioni reciproche sono la nostra fortuna, ciò che ci fa crescere e ci fa imparare l’alfabeto dell’amore e la grammatica della libertà.
Essere è meglio che non essere
Viviamo in una situazione culturale segnata dal cosiddetto “pensiero debole”: la nostra ragione non sarebbe in grado di affrontare la rischiosa traversata della ricerca per approdare alla terraferma della verità. Ci si dovrebbe contentare di costeggiare la sponda dei fenomeni, delle piccole ombre, delle apparenze nebbiose e fuggevoli. Mi domando allora: una ragione che si vuole debole, come può abbracciare l’immenso valore e la dignità inalienabile che ha in sé ogni vita umana, in ogni circostanza? come può ammettere che essere è sempre infinitamente meglio che non essere? Questa verità fondamentale non viene riconosciuta solo dalle grandi tradizioni religiose, ma anche da alti sistemi filosofici e culturali. Basti pensare al padre dell’epoca moderna, l’illuminista Kant e al suo porre alla base dell’etica la considerazione dell’umanità, sia in sé che negli altri, sempre come fine e mai come mezzo; la conseguenza è che l’uomo non è mai strumentalizzabile da nessuno, neanche da se stesso. Oppure ad Hans Jonas, un filosofo tedesco di origini ebraiche, il quale ha difeso con forza il primato assoluto dell’essere sul non essere, aggiungendo che il massimo della responsabilità è richiesto proprio nei confronti di chi vive una condizione di massima dipendenza e debolezza. Il carattere indisponibile della vita umana appartiene alla ragione e ai pilastri fondamentali della nostra cultura, della forma di convivenza e organizzazione sociale che ci siamo liberamente dati.
Sbaglieremmo però a pensare che si tratti di una conquista già assicurata. Non è così: constatiamo amaramente che il primo diritto, veramente universale, quello della vita, è troppe volte negato. Specialmente a chi non è abbastanza forte da difendersi da solo. Ma quando una persona – un soggetto - cessa di essere tale, per diventare una cosa – un oggetto - nelle mani di altri? Cosa mai la può privare della sua dignità unica e del rispetto che le è dovuto?
E’ questione di ragione
Chi ha fatto una scelta di fede è facile che scopra, dietro a queste idee, pagine della Bibbia, parabole evangeliche o volti di grandi testimoni, come Madre Teresa di Calcutta o il nostro Don Oreste Benzi. Ma giova ripetere che la persuasione dell’intangibilità della vita umana non è un principio che appartenga ai soli credenti. Riconoscerlo non offende la laicità dello Stato, né viola i diritti di nessuno. Anzi, è la prima garanzia e condizione di possibilità di ogni altro diritto. Un lucido esempio della ragionevolezza e universalità di tale convinzione lo si trova in un recente libro, pubblicato dal medico agnostico francese Lucien Israel: “Contro l’eutanasia”. Afferma questo luminare dell’oncologia, rispondendo ad alcune domande: “Rischiamo che le persone possano pensare che il giorno in cui staranno male ci sarà qualcuno che troverà normale ucciderle. Invece bisogna che ognuno di noi sappia che dovrà venire considerato sempre come essere umano a parte intera, qualunque sia la sua condizione patologica, e che i medici sono stati formati alla dedizione al malato, per impedire la sofferenza e manifestare la compassione”.
La vita non è un bene di consumo
Occorre che alla base della società, ossia della nostra vita vissuta insieme, ci sia qualcosa che è sottratto alla dinamica del voto di maggioranza, che domani potrebbe cambiare, e venga riconosciuto da tutti come il fondamento che regge la nostra casa comune. Riconoscere alla vita umana un valore in sé, indipendente dalle condizioni di salute, di provenienza o di età, su cui nessuno possa detenere il potere assoluto, è la roccia di fondazione, che permette all’edificio che noi chiamiamo civiltà, di non crollare. Nessuno è padrone della vita, né di quella propria né di quella altrui, come nessuno è padrone dell’aria che respiriamo. Se la vita ce la dessimo da soli, non avremmo colpe nel togliercela. Se lo Stato fosse in grado di dare la vita, avrebbe anche il diritto di eliminarla, e di autorizzare a farlo. Se la vita di un figlio fosse proprietà dei genitori, sarebbero loro a poterne disporre. Non è questo un argomento “laico” e scevro da ogni riferimento confessionale? “Non uccidere” non è solo un comandamento divino; è anche una verità, scritta nel cuore dell’uomo, e che si impone alla coscienza universale. E’ una verità talmente capitale e importante che abbiamo voluto leggi che considerassero gravemente punibile il favorire il suicidio o il negare il soccorso a chi è in pericolo di vita. Ci si batte – e giustamente! – per la moratoria contro la pena di morte: non è una contraddizione sostenere la validità del “non uccidere” per tutelare la vita di chi ha ucciso (“Nessuno tocchi Caino”) e negarla per la vita di chi è debole e indifeso? Questa è la cultura della non-violenza, predicata e praticata da laici e da credenti. Non ci si inchina tutti davanti alla testimonianza di Gandhi, il quale affermava che era disposto anche a morire per una giusta causa, ma che non esistono cause giuste per cui fosse disposto ad uccidere? Vogliamo strappare questa pagina di grande umanità? In nome di che cosa potremmo mai farlo? Certo non in nome della dignità della vita umana.
Io non sono padre-madre del mio io
Sento spesso, anche sulle vostre labbra, il famoso detto che la propria libertà finisce dove inizia quella degli altri. Vi confesso che non amo molto questa espressione, perché sembrerebbe ridurre gli altri ad altrettanti ostacoli sul cammino della propria realizzazione, mentre le nostre libertà sono fatte per incontrarsi ed espandere il loro orizzonte. Queste parole però contengono un fondo di verità indiscutibile: la mia-tua libertà personale è necessariamente una libertà limitata. Non ho scelto io se, dove, come e quando venire al mondo. Io non sono padre-madre del mio io e non sono padrone della vita che non mi sono dato. L’unica forma possibile di libertà non è l’indipendenza narcisista da obblighi e vincoli, ma la capacità gratuita di riconoscere e promuovere i legami che ci costituiscono.
Perché, come essere umano, sono un “essere da”: da altri, come i miei genitori; non mi sono generato da me! Sono un “essere con” quanti mi accolgono e mi fanno crescere: chi non è niente per nessuno è uno zombi. Perciò sono un “essere per”, fatto per entrare in relazione. Nella relazione con gli altri la mia autonomia non soffoca ma respira, mentre la libertà fatalmente deraglia quando si autoriduce a permissivismo, del tipo: “vietato vietare”, secondo cui le leggi debbono concedermi qualsiasi diritto e assecondare ogni mio desiderio.Fuori da questa prospettiva, non rimane che pendolare: o verso il delirio di onnipotenza che fa ritenere eticamente lecito tutto ciò che è tecnicamente possibile e legalmente autorizzato: “siccome si può fare l’aborto” – nel senso che si hanno i mezzi e i permessi per farlo – allora l’aborto… si può fare”, nel senso che sarebbe per ciò stesso un’azione moralmente positiva. L’altro estremo dell’oscillazione è la solitudine più triste, quella del rifugio appartato nella capsula della propria pelle.
Al fondo di tutta la questione c’è il rapporto libertà-verità. Se non esiste – o non è conoscibile – ciò che è veramente e oggettivamente bene o male, non si capisce neanche perché la libertà dovrebbe essere considerata l’unico valore oggettivo, né si capisce perché mai la mia libertà dovrebbe finire dove comincia la tua. Una libertà svincolata dalla verità sconfina inevitabilmente nel soggettivismo più volubile e nell’arbitrio più sfrenato di tutti contro tutti, con il prevalere dei (pochi) forti sui (molti) deboli.
Ci vuole un fondamento… fondamentale
E’ la verità che ci fa liberi. Ecco una frase del vangelo, accettabile anche da chi non crede. Per il cristiano è Gesù la verità che libera integralmente la persona e l’esperienza umana, ma resta vero per tutti che senza un fondamento oggettivo su cui appoggiarsi, si resta in balia di desideri, bisogni, situazioni che non possono avere in se stessi il criterio ultimo per fare una buona scelta. Sono elementi utili e talvolta necessari, ma non sufficienti. Per tornare al discorso sulla vita umana, la libertà non è poter decidere come e quando morire, ma cercare e scegliere fino in fondo ciò che dà senso e valore al nostro vivere, nel perseguimento dell’ideale che ci affascina, nella fedeltà al limite che ci costituisce.
Diritto di morire o di dare senso al vivere?
Torna la domanda: chi chiede di farla finita, non ha il diritto di venire esaudito? così sentiamo dire sempre più spesso. Ma il diritto di morire come si giustifica? L’unico argomento a favore è proprio quell’idea di essere proprietari assoluti di sé che però fa a pugni con l’esperienza: la “dipendenza” da persone e situazioni, per esempio, da genitori, educatori, e tutti coloro di cui abbiamo bisogno per nascere e per vivere. Pertanto l’autonomia individuale non può diventare la fabbrica delle proprie brame di indipendenza né il laboratorio dove i miei desideri si trasformano automaticamente in diritti – “siccome desidero un bambino sano e intelligente, dunque ne ho diritto”. La libertà è la palestra che mi allena a stabilire relazioni.
La strada, e la sfida, è un’altra: quella di far sì che nessuno, anche nelle condizioni più difficili e disperate, si senta solo o si consideri un peso per gli altri. Come ricorda ancora Lucien Israel: “E’ assolutamente indispensabile manifestare il rispetto totale della vita umana, anche perché attualmente siamo in grado di placare tutte le manifestazioni dolorose, e di conseguenza gli esseri di cui ci occupiamo non soffrono insopportabilmente; al contrario, ricevono tutti i giorni un aiuto attraverso la gentilezza degli infermieri e dei medici. Nella misura in cui ci occupiamo dei pazienti in questo modo, essi non ci chiedono l’eutanasia”.
C’è solo da aver paura di una società che ritiene di potersi ergere a giudice della vita e della morte dei suoi membri. È questo il tipo di società in cui vogliamo vivere? Quella che “scarica” i suoi componenti più deboli e bisognosi, convincendo se stessa che è meglio così per tutti? Quella che, da una parte, identifica la qualità della vita con l’immagine fisica e, dall’altra, confonde la tolleranza con l’indifferenza?
Libertà di fare ognuno quel che vuole?
Solitamente, nascosto nel dibattito sui temi di grande rilevanza etica, c’è un argomento strisciante che si sbatte in faccia ai credenti, quasi a volerne squalificare l’azione pubblica. Essi, infatti, vengono accusati di imporre il loro punto di vista religioso a una società che è laica e non può essere costretta dentro il perimetro di un credo particolare. E si aggiunge: “Voi non lo potete fare perché lo ritenete un peccato. Ma allora, libertà per libertà. Liberi voi di non farlo, perché per voi sarebbe un delitto. Liberi noi di farlo, perché per noi è e rimane un diritto. Dunque perché, mentre noi rispettiamo la vostra libertà, voi non rispettate la nostra?”.
È un’idea ben povera di democrazia quella sottesa a simili obiezioni. La libertà di fare ognuno quel che gli pare giusto non è piuttosto anarchia? Siamo davanti a scelte che non rientrano nella stretta sfera della fede – non si tratta di obbligare con legge dello Stato a frequentare la Messa o a confessarsi! – e inoltre riguardano l’idea stessa di società che vogliamo. Finiamo così per distruggere il senso stesso del bene comune come obiettivo dell’azione politica. Del resto, se per partecipare alla vita della comunità civile tutti dovessero abdicare alle proprie più profonde convinzioni ideali, a cosa si ridurrebbe l’arte di organizzare la convivenza umana, se non ad una inconcludente e frustrante trattativa diplomatica? Rimane un’altra considerazione: se un certo atto nuoce a uno solo dei cittadini dello Stato, abbiamo il dovere di difendere lui e, di conseguenza, il nostro paese. Il fatto che lui sia consenziente non trasforma certo il male in bene. La tolleranza non può mai combaciare con l’indifferenza: non è vero che una scelta vale l’altra. Inoltre è legittimo porre un limite alle libertà individuali in nome di un interesse generale: si pensi al divieto degli OGM, alle limitazioni della caccia o del fumo…
* * *
Fatti di vita
Carissima, Carissimo,
eccomi al termine di queste riflessioni. Le ho stese da credente, cordialmente convinto che la fede non solo non mi impone di rinunciare a pensare, ma mi impegna ad amare quelli che non credono, e dunque a rendere loro ragione della Speranza che ci abita.
Mi rendo conto che non ho toccato tutti gli aspetti di una questione tanto complessa e delicata. Non ho parlato della differenza tra eutanasia ed accanimento terapeutico (per questo ti chiedo la pazienza di leggerti con calma la scheda in appendice). Ho appena accennato all’enorme valore della sofferenza accolta e accompagnata con amore. Mi sarebbe piaciuto parlare dell’incalcolabile “valore aggiunto” della fede cristiana per cui ogni uomo è mio fratello, in quanto è immagine di Cristo, e dunque ogni vita è sacra e nessuna vita è “indegna”. Ma non volevo (e non potevo!) dire tutto, anche perché su questi temi abbiamo avuto nei giorni scorsi pronunciamenti molto autorevoli, a cominciare dal Papa. Volevo semplicemente offrirti alcuni motivi di riflessione sui fondamenti di questa delicata e complessa problematica. Se ci sono riuscito, ne sarei contento per te. Prima di concludere, vorrei ora invitarti a tenere presente la grande “lezione di vita” che viene dall’esperienza della nostra Chiesa riminese. Penso in particolare alle tante case-famiglia della “Papa Giovanni”, alla Comunità di Monte Tauro, e ad alcune famiglie che ho visitato recentemente..
Vorrei che tu entrassi idealmente con me nella camera di Davide, un giovane della Grottarossa, in coma vegetativo da otto anni. «Non vede, non parla, ma lui percepisce le nostre voci, i nostri gesti e sorride» mi ha scritto sua mamma Amedea. «Questo conferma che la scelta di averlo a casa con noi è stata “una scelta per la vita”, perché lui, seppure i medici dicono che si trova ancora in coma vegetativo, per noi è presente, fa parte integrante della nostra famiglia e soprattutto lo vediamo sereno». L’incontro con Davide e con la sua famiglia mi ha colpito e commosso, soprattutto per l’attenzione che papà e mamma hanno nei confronti del loro ragazzo. L’amore ha operato il miracolo. «Come diceva sempre don Oreste – sono ancora parole di mamma Amedea – Davide, nel suo silenzio e nella sua immobilità, non è qui a caso: dona a noi familiari e a tutte le persone che lo conoscono una lezione di vita». Vorrei poi entrare insieme a te nella camera di Nicola, nato con una grave disabilità, accolto in una casa famiglia della Papa Giovanni XXIII da quando aveva 4 anni. «Nel 1993 è stato male ed era in fin di vita – ha detto la “mamma” che lo ha in affidamento – ci siamo chiesti se fosse meglio che la natura facesse il suo corso, se era una tortura continuare a cercare di tenerlo in vita. Quando, dopo due mesi e mezzo, è uscito dalla rianimazione, il medico che lo aveva in cura, con le lacrime agli occhi, ha detto: “Nicola, tu volevi vivere e noi invece…”. Poi, rivolto a me: “Avevate ragione voi”». Ancora, nei giorni scorsi, in occasione della Giornata mondiale del malato, ho conosciuto Stefano, nella parrocchia della Colonnella: fin dalla nascita vive bloccato nel suo letto, alimentato da un sondino. Sembra che non capisca, ma sua mamma mi ha detto: «Mio figlio è per me il tesoro più grande e ha reso la nostra casa una “piccola chiesa”».
Ho detto più su che ti invitavo ad accostare “idealmente” queste esperienze. Ma perché non provare a farlo realmente?
Le certezze di una fede ragionevole
La fede però non solo si rende leggibile attraverso esperienze concrete – dei veri “fatti di vita” – ma ci offre anche delle certezze, che non confliggono con le certezze della ragione, ma le consolidano e le dilatano. Non siamo condannati al regime tirannico della “doppia verità”! Fede e ragione – ce lo ricorda in continuazione papa Benedetto – non sono in proporzione inversa: una fede, per essere forte, non ha bisogno di confrontarsi con una ragione debole, e viceversa. E’ per questo che concludo questa lettera con una citazione di Don Oreste Benzi: mi sembra che possa aiutare a fare sintesi tra fede e ragione, tra valori ideali e prassi concreta. In fondo questo è il linguaggio più credibile: quello dei testimoni.
Diceva don Oreste, in riferimento all’eutanasia e al drammatico caso della giovane Terry Schiavo, che“l’idea dell’eutanasia sta penetrando come un veleno nella mentalità della gente. Si arriva a giustificare che quando uno dà fastidio a qualcun altro, questi ha il diritto di sbarazzarsene, soprattutto se quello non ha la possibilità di difendersi. E’ il trionfo della società del profitto in cui la persona viene considerata uno strumento di cui servirsi, un’occasione di cui approfittare, e quando diventa un ingombro o diventa inutile si può fare fuori”.“Insorgiamo nel nome dei nostri bambini anencefalici, dei nostri bimbi ciechi, sordomuti, in possesso solo delle funzioni vegetative, dei nostri malati in stato di coma; creature tutte che abbiamo nelle nostre case-famiglia e che curiamo con amore e dedizione per tutta la durata della loro vita. Il diritto alla vita è sacro, perché è dato da Dio a ogni essere umano; è intangibile, indipendentemente dalle condizioni fisiche, psichiche, spirituali in cui la persona si trova”.
Carissimi,
se avete avuto la pazienza di arrivare fino in fondo, forse vi sarete sentiti, ancora una volta, sbilanciati sulle sponde del Mistero. Non abbiate paura di fare l’ultimo passo della ragione: quello di immergerci in una realtà che ci sorpassa e che ha un volto e un nome. E’ il nome e il volto di Gesù, morto per amore, e risorto per farci vivere in pienezza.
Ve lo auguro di cuore
+ Francesco Lambiasi